Narrazioni parallele: cosa sono e perché ne siamo tutti parte integrante
Se la quantità di dati non è più un mistero, un enorme interrogativo grava ancora sulla qualità; qualità non nell’accezione positiva o negativa (mi piace o non mi piace quello che vedo sui social media?), ma intesa piuttosto come puro contenuto: cosa contengono questi dati che, in quantità esorbitanti, ogni giorno impattano sulle nostre vite? Semplice, penserebbe qualcuno, contengono scorci di vita, istantanee su momenti che qualcuno ha pensato valesse la pena raccontare. Vero, ma contengono anche informazioni sensibili appartenenti a individui o imprese, forme di pubblicità, arte, ma anche, grazie all’IoT, dati relativi alle condizioni atmosferiche, ai processi industriali, al traffico, e avanti così all’infinito.
Ma cosa succederebbe se riuscissimo efficacemente a intercettare e “sintonizzarci” soltanto su quella porzione di dati che riguardano i nostri interessi? Avremmo tra le mani un quantitativo di dati che basterebbe per centinaia di analisi di mercato. Dati che fino a qualche anno fa richiedevano tecniche piuttosto invasive per essere raccolti e che oggi invece vengono forniti spontaneamente dagli utenti ogni volta che si scattano un selfie per mostrare i nuovi occhiali da sole o che pubblicano la recensione di un ristorante su TripAdvisor. Ciò di cui avremmo bisogno, dunque, sono strumenti di aggregazione di dati, quindi di monitoraggio, archiviazione e visualizzazione, ma anche modelli e metodologie per analizzarli, perché solo con le giuste metodologie si può arrivare a ottenere valore da questi dati; valore utile soprattutto per chi fa business.
Ma cosa sono, quindi, le narrazioni parallele? Pensiamo a un brand e al suo prodotto. Il marketing prevede che il brand faccia la sua comunicazione del prodotto per portarlo all’attenzione di un pubblico a metà strada tra il più vasto e il più pertinente (target) possibile, quindi raffigurerà il prodotto su gigantografie, poster, inserti di giornale, spot televisivi, film, social media e via dicendo. Il prodotto beneficerà del tipo di narrazione che il brand è riuscito a crearvi attorno, acquisendo visibilità e imprimendosi magari nell’immaginario delle persone. Ma il prodotto, in quanto oggetto semiotico, diventa quindi anche una struttura di significato attraverso un processo in cui la narrazione “ufficiale” del brand ne esalta alcune caratteristiche e alcuni usi a discapito di altri. In altre parole: questo prodotto X è usato da questa persona Y per questo scopo Z.
Una delle potenzialità maggiori dei big data provenienti dai social media, sfruttata solo in parte e solo da alcune grandi realtà imprenditoriali, è la capacità, come dicevamo, di aprire finestre sulle abitudini di consumo degli utenti. Il selfie con il nuovo paio di occhiali può in realtà rivelare molto dell’esperienza di consumo (user experience) dei clienti di quel preciso brand. Un algoritmo sviluppato apposta per rispondere alle sfide della computer vision potrebbe ad esempio mettere in luce altri brand presenti nella stessa foto, ma anche rivelare contesti di consumo e clientela tipo (sesso, età, interessi). Inutile dire che tutte queste informazioni sono preziose per l’accrescimento del business. In passato, un noto brand di abbigliamento sportivo è riuscito a profilare, semplicemente tramite l’analisi delle foto provenienti da Instagram, la propria clientela tipo fino a tracciarne i gusti musicali. Questa informazione è stata poi sfruttata coinvolgendo gli artisti preferiti dal pubblico come testimonial delle campagne pubblicitarie per aumentare l’attaccamento al brand e, in definitiva, incrementare i ricavi, superando persino l’unico marchio con cui, storicamente, si spartiva il mercato. Ma c’è dell’altro.
L’analisi qualitativa dei big data provenienti dal web e dai social media può inoltre mettere in luce narrazioni alternative a quella del brand. La struttura di significato (a cui accennavamo sopra) che il marchio crea attorno al prodotto è in realtà soltanto una delle possibili sfaccettature del prodotto. La user experience varia da persona a persona e sarebbe impossibile prevedere una strategia di comunicazione che abbracci ogni possibile sfumatura, contesto o uso del prodotto. In alcuni casi, la narrazione dei clienti è complementare e ha svariati punti di contatto con quella del marchio. In altri casi (più di quanti si pensi) la narrazione del consumatore viaggia in modo parallelo, senza incontrarsi mai con quella ufficiale. Spesso, anzi, accade che sia diametralmente opposta.
Ecco quindi che può capitare che le narrazioni parallele di uno dei più importanti brand di autotrasporti mettano in luce, piuttosto che immagini di ruote e motori, autostrade e camionisti, immagini fortemente empatiche di famiglie che si ricongiungono, di donne tatuate al volante di un tir, dei tramonti contemplati durante il viaggio e di figli che per la prima volta salgono a bordo del camion di papà. Scorci di vita, dicevamo. Scorci che finiscono con l’essere molto più emozionali e coinvolgenti della comunicazione ufficiale del marchio.
Ecco perché l’ascolto e l’analisi di quello specifico segmento di dati di interesse può essere una miniera d’oro per il business: perché consente di portare sotto i riflettori storie e abitudini che possono arricchire in modo esponenziale il racconto del prodotto e generare quindi un maggiore attaccamento al brand. Questo è di fondamentale importanza se si pensa a come i più importanti social network stiano modificando i propri algoritmi per premiare il valore umano, gli affetti, le relazioni interpersonali e quindi, di conseguenza, quei brand che riescono a stabilire un rapporto intimamente emotivo con il proprio pubblico.